venerdì 8 gennaio 2010

JŪJUTSU



Il Jūjutsu, conosciuto anche come Jūjitsu, è l'arte marziale giapponese della flessibilità. La parola Jutsu, letteralmente metodo, arte o tecnica si associa a“jū”, flessibile, cedevole, morbido, ad indicarne appunto la particolarità di esecuzione. Il Jūjutsu era praticato dai bushi (guerrieri) che se ne servivano per sconfiggere gli avversari provocandone anche la morte, a mani nude o con armi. Lo spirito di quest’arte insegna che occorre assorbire l’energia dell’attaccante e attraverso il controllo e l’armonia restituire la stessa potenza.

Le origini

La lunga storia e la complessa tradizione dell’arte giapponese del combattimento si concretizzano in una varietà di forme, metodi e armi, ognuno dei quali costituisce una specializzazione particolare di quest’arte. Si ritiene, in genere, che il sedicesimo e il diciassettesimo secolo siano stati l'epoca aurea del bujutsu, le arti da combattimento giapponese. Tutte le più antiche scuole, infatti, collegano la loro origine a quei tempi turbolenti di lotte sociali, da cui uscirono vittoriosi i Tokugawa. Esistono testimonianze che riportano la pratica del Jūjutsu già molti secoli prima del 1600, ma sotto altri nomi, quali Kogusoku, Yawara, Tode e Kumiuchi. Come è inevitabile per le arti orientali, anche gli influssi di altre discipline influenzarono lo stile del Jūjutsu che risentì delle tecniche di combattimento cinesi e dell’isola di Okinawa.
Nei secoli, il Jūjutsu si sviluppò attraverso numerose scuole, come la wa-jutsu, la yawara, la kogu-soku, la hakuda, la shubaku, la kempo: da alcune di queste nasceranno il Judo e l'Aikido. In confronto, il periodo Tokugawa, con i suoi controlli rigorosi e il severo mantenimento dell'ordine, sembrerebbe essere stato piuttosto un periodo scoraggiante, per coloro che si interessavano all'evoluzione del bujutsu disarmato, invece, fu un'epoca particolarmente favorevole alla tranquilla, meticolosa raccolta e sistematizzazione di tutte le tecniche ereditate dal passato, che vennero affinate e migliorate.

La leggenda del salice

Una leggenda fa risalire la “scoperta” dei princìpi del Jūjutsu all’intuizione avuta, molti secoli fa, dal medico Shirobei Akiyama. Egli aveva studiato le tecniche di combattimento del suo tempo, in particolar modo le arti cinesi legate alla pratica della medicina tradizionale orientale, senza però ritenersi convinto del risultato. Contrariato dal suo insuccesso, per cento giorni si ritirò in meditazione nel tempio di Daifazu a pregare il dio Tayunin affinché potesse migliorare. Osservò un giorno, durante una abbondante nevicata, che il peso della neve aveva spezzato i rami degli alberi più robusti lasciandoli spogli. Posò, allora, lo sguardo su un albero rimasto miracolosamente intatto: era un salice, dai rami flessibili. Ogni volta che la neve minacciava di spezzarli, questi si flettevano lasciandola cadere e riprendendo subito dopo la posizione naturale.

L' importanza del principio della non resistenza diede origine ad una delle scuole più antiche di Jūjutsu, la Yoshin ryu, “Scuola del Cuore del Salice”.

Le tecniche di base

Le tecniche seguono il principio di "JU" (elasticità, morbidezza) ossia di "non resistenza": l'attacco viene neutralizzato assecondando la forza dell'avversario, evitandola mediante una schivata o intercettandola all'origine del movimento.

  • ATEMI - percussioni, portate con le mani, i piedi, i gomiti o le ginocchia a colpire i punti vitali
  • GYAKU - lussazioni, leve, torsioni o slogatura delle articolazioni
  • NAGE - proiezioni, sbilanciamenti a terra dell'avversario
  • OSAE - immobilizzazioni e controllo dell'avversario, sia in piedi che a terra
  • SHIME - soffocamenti e strangolamenti


Gli atemi vengono usati principalmente per indebolire l'avversario, sia fisicamente che psicologicamente, al fine di poter eseguire l'azione che ne consegue (proiezione, immobilizzazione ecc.) sfruttando l’iniziale energia dell’attaccante. La pratica della tecnica si completa ad un livello più alto con lo studio delle armi antiche dei samurai: katana (spada lunga), kodachi (spada corta), chobo (bastone lungo) e hanbo (bastone corto).

La pratica del Jūjutsu

Il principiante di Jūjutsu, attraverso un primo approccio fisico alla tecnica, cercherà di cogliere i punti di forza e debolezza dell'avversario. Uno studio più approfondito dell’arte marziale, insegnerà all’allievo che occorre stabilire un legame sia fisico che mentale: nell'azione dinamica di un duello, i muscoli e la mente devono flettersi e adattarsi a circostanze perennemente variabili. Caratteristica del Jūjutsu è il principio del JU che si riferisce alle forze della cedevolezza, che sfruttano la forza dell'attacco dell'avversario per sconfiggerlo. Ju è la forza flessibile, “una potenza gentile ” nel senso che la tecnica utilizzata comprende la malleabilità, cede e assorbe per poter resistere, instaura un meccanismo di dolcezza duratura.

Come la crescita primaverile del bambù, il “Ju” del Bushi, il guerriero giapponese, è sempre flessibile anche se inarrestabile come la stagione stessa.

Il principio dei Bushi giapponesi ci porta sempre a distinguere tra la forza muscolare “chikarà”(fattori esterni) - che nelle forme marziali armate era accresciuta anche dalle armi appunto e non solo dalla tecnica - e l'energia intrinseca della volontà, della coordinazione mentale e dell'estensione del ki (fattori interni). I Maestri fondatori del Jūjutsu intendevano comeprincipio strategico del combattimento, il controllo dell'energia coordinata, basato sul centro d'integrazione addominale. Questo addestramento esaltava la pratica della respirazione addominale e gli esercizi attivi di coordinazione, anziché quegli esercizi di meditazione e di concentrazione considerati troppo statici per i fini del guerriero.

Fonti:

  • I segreti dei Samurai – Le antiche arti marziali (Edizioni Mediterranee)
  • Ju-jitsu International Federation (J.J.I.F.), www.jjifweb.com
  • Associazione Italiana Ju-Jitsu e Discipline Affini (A.I.J.J. e D.A.)
  • Nihon Budokan - Ente Governativo giapponese di tutela del Budo (Arti marziali) tradizionale
Lidia Katia Manzo

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